esame di immaturità.

Titolo volutamente poco originale ed affidato ad un racconto che una buona parte di me, non so fino a che punto nascosta al mondo intero, narratore incluso, non ha nessuna voglia di scrivere.
Figlio di puttana; e figlio di questa annata alla quale a regalarle un po’ di significato ci si sente tipo Dante al cospetto di quella famosa porta tra due mondi, immobile ed eterna, scolpita nel Canto III così come nei miei ricordi più profondi.
Pensa che a fare una chiacchierata con il buon Virgilio mi ci volevano pure mandare.
E mi è venuto quasi da ridere quando il mio curante, cercando delle risposte tra le pagine di un referto di pronto soccorso, e sgranando gli occhi davanti alle mie lacrime ed al solo ascoltare il tipo di terapia “auto-prescritta” che stavo meticolosamente seguendo ogni cristo santo di giorno, mi ha detto che non se la sentiva più di sostenere la mia scelta di ignorare questo forte disagio psicologico.

«Farsi così tanto male non ha nessun senso.»

Ora ti direi anche che penso di essere abbastanza forte ed intelligente da potermela cavare da solo.
Sicuramente mi suonerebbe molto meglio e più da esemplare alfa rispetto al dirti che non ho mai avuto le palle di affrontare la questione seguendo la via consigliata e corretta.
Ma esiste questo posto chiamato aprilseventeen, quindi ti chiedo scusa se a questo giro non troverai tra le sue pagine i soliti racconti leggeri e divertenti, ti chiedo scusa per non essere capace di buttarla in caciara anche oggi.

Oggi ho qualche pensiero scomodo da lasciare indietro.
Oggi ho qualche bugia da raccontare.

Si pensa che sognare frequentemente di dover ri-affrontare l’esame di maturità sia un sintomo di forte ansia e stress legati a prove o sfide importanti nella vita, oltre che di insicurezza e di paura più o meno giustificata di non “essere all’altezza”.
E fotte?
Primo perché il mio esame di maturità è stato preparato in una stanza piena di tavole da skate spezzate e fissate alle sue pareti, di punk-rock, di amicizia, di frullati alla mela e di altre “sostanze deliziose” che sicuramente non favorivano la concentrazione… però… chi ben comincia?
Quindi sarei infinitamente grato a tutto il mondo dell’interpretazione dei sogni se mantenesse le distanze e si tenesse alla larga da quei ricordi.
Secondo, così ad occhio e croce, ti direi che in questa occasione mancano ancora un paio d’anni tutti interi prima della fine del liceo.

Lezione con allievi provenienti da più classi diverse, una di quelle che «bene così, oggi non si fa un cazzo», e mi metto ad osservare ragazze e ragazzi mentre varcano la porta dell’aula con espressioni tipiche di un gatto che viene portato in un ambiente per lui nuovo, canzonandoli il giusto e ridendo di questa cosa insieme ai miei due storici compagni di banco (guess what? rigorosamente in fondo a destra).
La lezione comincia e, com’era più che prevedibile, nessuno si sta filando di striscio le parole vuote di quel povero professore.
Bellissima quella barba dall’aspetto così trasandato che la forma delle sue labbra te la puoi soltanto immaginare, ma con quel tono di voce così piatto e così privo di ogni traccia di anima non puoi aspettarti che mi prenda la briga di immergermi nel pensiero di… di… «di chi è che sta parlando?»

Ci sei anche tu, e ci scommetto tutto quello che vuoi che se fossi stato dietro a mordicchiare la matita, come spesso mi trovo a fare senza neanche accorgermene, questa sarebbe caduta inesorabilmente sul banco dopo questa sorpresa del tutto priva di un minimo senso.
Ho riconosciuto il tuo viso solo perché sono io il regista di questo sogno, so che sei tu, altrimenti sarebbe stato quasi impossibile farlo.
Non ti conoscevo in quel periodo, quindi mi tocca fare i complimenti al mio subconscio per la bellissima elaborazione grafica della tua versione da teenager, altro che A.I.!
Non mi sento a mio agio.
È bellissimo quando ci sei, ma oggi mi viene troppo difficile trovarmi nella stessa stanza, abbi pazienza.
Senza contare poi che no, non ho nessuna intenzione di condividerti con tutte queste persone. (Geloso? Io?)
Quindi faccio su frettolosamente l’Eastpak viola preso in prestito da Tippe e decido di uscire dall’aula, ignorando i numerosi e rumorosi improperi del barbuto professore, e risolvendo tutta la questione con un singolo gesto della mano che in claris non fit interpretatio.

Giro tra i corridoi di questa scuola che riconosco come familiari solo in parte.
È come se il loro stile fosse sospeso tra Hogwarts e le parti più vecchie del Respighi, con un livello di pulizia così preoccupante da farmi sospettare che il povero bidello sia stato divorato dai giganti in una delle loro scorribande all’interno delle mura.
Salgo su per una scala antica in ferro battuto facendo molta attenzione a non appoggiare le mani su quella ringhiera arrugginita, per poi trovarmi davanti ad una porta di legno socchiusa ed appartenente ad una stanza di cui ho sempre ignorato la sua esistenza fino a questo momento.

Un debolissimo soffio di luce la illumina appena appena da poter dire di vederci, ed un forte profumo di musica mi investe già dai primi passi incerti mossi al suo interno.
Le mie scarpe si trovano su di un mosaico di una bellezza tale da toglierti il respiro, e le sue tessere mi stanno raccontando di una lontana e dimenticata leggenda proveniente dalla antica Grecia.
Sono circondato da strumenti musicali.
Se un tastierista si trovasse improvvisamente qui dentro sarebbe molto difficile riuscire a convincerlo di non essere morto e di non trovarsi in paradiso.
C’è di tutto, dai vecchi sintetizzatori analogici agli MS-20, dai Juno fino ai Virus, dalle DX7 passando per i Rhodes, gli Hammond, e fino alle più recenti e moderne workstation.
Sembra che ogni singolo strumento a tasti mai prodotto dalla razza umana si trovi entro i confini di questa stanza, stanza che nasconde esattamente nel suo centro il più prezioso tra tutti i suoi tesori: un imponente pianoforte a coda.

Mi avvicino a testa bassa, fissandomi le scarpe, quasi come se volessi mostrargli tutto il rispetto che posso.
Sono consapevole che le mie mani non sono degne e mai lo saranno anche solo di sfiorare quei tasti bianchi e neri, ma non credo che l’occasione di suonare un Model D mi si ripresenterà mai nella vita.
Scelgo una nota a caso.
Lascio che rimbalzi tra le pareti fino alla fine naturale della sua vita.
Dopodiché sposto con cura la panca, mi siedo, ed inizio a suonare.

Il suono è così intenso e reale che niente e nessuno sarebbe mai capace di svegliarmi, di interrompere questo sogno dove sono completamente immerso in un brano di cui non ho memoria, ma che le mie dita stanno creando con delle dinamiche e con delle intenzioni delle quali non credevo fossero capaci.
Chiudo gli occhi e me ne vado lontano, dove tutto il resto smette improvvisamente di esistere, ed è come se non fossi più io ma direttamente la mia anima a disegnare quelle melodie.
È tutto così semplice, leggero.

Poi il suono inconfondibile di passi dietro di me.

Mi volto e sei sulla porta al limitare della stanza, con una espressione dispiaciuta scritta sul tuo viso.

«Scusami, non volevo disturbarti. Per favore, non smettere.»

«Va bene, ci provo! Ma non restare sulla porta, che così mi metti ansia. Dai vieni, ti faccio spazio!»

Attraversi tutta la stanza con meno della metà della curiosità che ho mostrato io verso questo posto, quasi di corsa, e ti metti a sedere da parte a me (sbattendo un ginocchio sul piano in maniera troppo goffa).
Ti metti a fissare qualcosa di imprecisato proprio lì dove avrebbe dovuto esserci uno spartito, e te lo lascio anche fare per un po’; dopodiché decido che anche basta, e con un dito sotto al mento ti costringo a guardarmi giusto un istante prima di scoppiare a ridere entrambi imbarazzatissimi per la situazione.

Ricomincio a suonare cercando di dirti in musica ciò che non sono mai riuscito a dirti con le parole, cercando di farti capire cose che non sono mai stato capace di spiegarti in altro modo.

Provo ad aggrapparmi a questa realtà come meglio posso, ma so che sto per andarmene.

Il suono dell’asciugatrice, o forse l’assurdità di questo desiderio mai espresso volontariamente.
Difficile trovare un colpevole.
Fatto sta che nel giro di un niente sono nuovamente sdraiato su questo divano nero in quel di Via Carli 38.

Tu non ci sei.
Quel Bruno non esiste più.

Le parole moroso, marito, e padre, mi suonano solo e sempre di più come bestemmie e futuri rimpianti.
Negli anni ho fatto anche di peggio, lasciando che attorno a me si distruggessero relazioni di ogni tipo, etichettando come proibita anche la parola amico, cancellata dal mio dizionario il 18 Luglio 2019.
Non sono capace del minimo gesto di affetto se non in rarissimi casi (di cui poi quasi sempre finisco per pentirmi) ed ho paura, ho una paura fottuta di provare qualsiasi forma o tipo di amore verso chiunque.
Figata.
Ciò non di meno, non importa quanto io pensi di riuscire a tenerti a distanza di sicurezza, a lasciarti indietro.
Tu un modo per tornare sembri trovarlo sempre, e la cosa è diventata troppo divertente.

Credevo che un sogno così mi avrebbe demolito.
Ma oggi non ho nessuna voglia di sentirmi giù, è escluso.
Ci rido sopra.

Beviamo qualcosa, ti va?

In alto i calici per il “Dicono che con il tempo tutto quanto passa, Ma quand’è che passa? Perché non mi passa”, e scusami, caro Enrico, se sto dando ad una tua canzone l’ultima tra tutte le interpretazioni presenti nella lista di quelle che pensavi possibili quando l’hai scritta.
Oggi ti ha detto male.

In alto i calici perché sono riuscito, almeno per il momento, a piantarla con le parti più pericolose di quella “terapia auto-prescritta” di cui ti parlavo nelle primissime righe.
Vero, obbiettivo raggiunto solo dopo essermi fatto particolarmente schifo in quel pomeriggio di metà agosto dove avrei fatto qualsiasi cosa per fermare quelle lacrime, per non sentire quel dolore.
Sono convinto che, se mai saltasse fuori la causa scatenante, il novanta per cento di voi lascerebbe queste pagine per non farci più ritorno.
Ma, ehi!
Almeno è servito a qualcosa.

In alto i calici perché, nonostante tutto, sto ancora cercando un modo per restare in equilibrio.

Infine: in alto i calici per tutti quelli che credono nell’interpretazione dei sogni e negli oroscopi.
Ma questa frase la lascio qui solo per rendere omaggio ad un mio affezionato lettore.
Mai stato un fan dell’astrologia:
descrivono quelli nati sotto il segno del leone come dotati di una personalità carismatica, orgogliosa, generosa e leale.
Aggettivi troppo inadeguati a descrivermi, escludendo l’ultimo.
Tu sembri crederci, e la cosa mi diverte davvero un sacco.

Grazie per avermi incoraggiato a scrivere queste cose nella speranza che potessi liberarmene.

Ho capito, ho capito!
Inspiegabilmente questo leone un po’ atipico sembra andarti a genio, ma è un altro segno zodiacale a causarmi più di qualche “fastidio”, ad essere fonte di più di qualche “preoccupazione”.
Comportati bene, che ad accendere quel mio istinto piromane degno di Burzum e di tutta la scena Black Metal di quegli anni non ci metto davvero niente! 😉

Comunque sta bottiglia fa davvero pietà, giuro non si può bere.
Che sfiga!
Immagino finirà nel lavandino.
Che Dioniso abbia pietà di me!

‘Mocc
Your Favorite Milk Delivery Boy.

«Solo cinquanta e cinquanta?
In realtà speravo un po’ di più, ma va be…
Vedrò di accontentarmi!»








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